Rocky Mountain Way: Road To Canada

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PROLOGO: Nel cuore della primavera 2018 incastro il tassello mancante nel complesso puzzle dei miei viaggi in terre nord-americane. Tutto nasce dalla volontà di risalire le Montagne Rocciose fino a giungere in Canada. Estasiato dalle immagini di vette innevate che fanno da cornice a giganteschi laghi dai colori più puri, affascinato dalla dimensione di  spazi aperti che più a nord sono costituiti da infinite distese di foreste, catturato dall’idea di vivere un’esperienza immersiva nella natura estrema, ecco che parto con quattro compagni di viaggio alla volta dell’ennesima avventura. Al fine di ottimizzare i costi, il viaggio si svolge come un round-trip: partenza da San Francisco, quindi Idaho Falls, i parchi del Wyoming e Montana, l’ingresso in Canada, Calgary, Banff National Park, Jasper National Park, Vancouver e quindi di nuovo San Francisco. 6700 chilometri di strade che solcano Stati, centri abitati, perlopiù distese di spazio incolto e abbandonato a madre natura, deserti, foreste, praterie, corsi d’acqua che fluiscono in mille direzioni. Chilometri di pensieri, risate, musica, conversazioni e, certamente, felicità.

DAY 0

L’arrivo a San Francisco non è certo dei migliori. Già a Francoforte, Lufthansa ci comunica che l’aereo subirà un ritardo indefinito dal momento che, invece di volare diretto alla celebre città californiana, farà scalo a Chicago per cambiare l’equipaggio. Le ferree regole del traffico di volo impongono questa tappa intermedia che comporta cinque ore di ritardo sulla nostra già serrata tabella di marcia. L’arrivo in California di notte ha un fascino particolare. L’aereo plana prima verso sud, puntando il muso verso la Palo Alto, quindi vira verso nord ovest lasciando intravedere alla destra la baia di San Francisco e alla sinistra dell’aereo la distesa oceanica.

San Francisco International Airport
San Francisco International Airport

Prelevata la macchina all’Avis dell’aeroporto ci si porta il più possibile fuori dal centro abitato in direzione nord-est, verso Fairfield. L’esperienza americana ha inizio, come già successo in passato, con il classico motel sgangherato, moquette dall’odore stantio, mobili vecchi di almeno una trentina d’anni, copriletto improbabili, la bibbia nel comodino (prima cosa che mi fa sempre capire di essere in USA), asciugamani di un bianco lucente ancora intrisi di milioni di lavaggi (se va bene). Il sonno sopraggiunge violento e pesante, a discapito di fusi orari, ritmi circadiani, stanchezza e adrenalina. E’ solo una vampata. Alle tre del mattino siamo tutti con gli occhi spalancati a cercare sul soffitto l’ispirazione per trovare ulteriore riposo, invano.

DAY 1

Lasciamo Fairfield alla volta di Sacramento, direzione Donner pass. La zona collinare dei famosi vigneti della Napa Valley inizia a mutare gradualmente. Le prime conifere sono conseguenza dell’altitudine che ci porta nel giro di un’ora a sfiorare i tremila metri di quota.

Donner Pass
Vista dal Donner Pass

Scavallato il passo in prossimità del lago Donner si scende alla volta di Reno, dove la terra riarsa dal sole e la vegetazione secca e giallastra la fanno da padrone. Appena fuori dai piccoli sobborghi dove svetta sempre come certezza assoluta la bandiera americana, ci si immerge nel deserto più totale. Il nulla assoluto attraversa il nord del Nevada. Un susseguirsi di leggere e dolci colline, perfettamente divise dalla sottilissima striscia di asfalto che prende il nome di Interstate 80: seppure appaia tutto pianeggiante o al massimo leggermente ondulato, il terreno circostante si erge su uno sterminato altopiano a millecinquecento metri sul livello del mare. A ovest la Sierra Nevada e le White Mountains californiane, a est lo snodo centrale delle Rocky Mountains. Avvicinandosi all’Idaho, i colori cominciano a farsi più verdeggianti. Le cime montuose, dipinte nel nulla dell’orizzonte infinito, sono lambite da esili lingue di neve che resistono invano all’ormai imminente stagione estiva. Bassi cespugli, tralicci in legno, steccati e recinti all’apparenza abbandonati sono l’unica coreografia allo scenario che cambia senza dare alcuna reale parvenza di farlo.
La strada si restringe, due carreggiate doppio senso di marcia. La luce prende quell’inclinazione che alle sei di sera lascia presagire il tramonto. Ombre lunghe e calura che anche dietro al finestrino si fa più sopportabile. Un paio di ore dopo attraversiamo il confine entrando nell’Idaho: l’America che cambia ancora lasciando spazio a immense praterie irrigate da giganteschi macchinari. Qualche cavallo accanto a cascinali di legno dalla vernice scrostata. Distese di campi coltivati a cereali e tantissimo verde: le precipitazioni qua sembrano non scarseggiare, il resto è dovuto a evoluti sistemi di irrigazione.
Alle otto ci si ferma a cenare a Twin Falls per poi concludere la giornata, finalmente a Idaho Falls 827 miglia dopo.
La prima lunga tappa è  finalmente terminata.

DAY 2
Da Idaho Falls a West Yellowstone ci separano più di duecento chilometri. Il sole picchia forte, il cielo perfettamente sgombro da nubi e foschia lascia presagire una calda giornata nel parco nazionale della “Pietra Gialla”.
Lo scenario non si discosta nettamente da quanto visto partendo dal luogo del nostro ultimo pernottamento: ampie distese che lasciano spazio a foreste di conifere e sempreverdi, corsi d’acqua che scivolano lentamente sfruttando i lievi dislivelli di un altipiano che si sviluppa attorno a una quota di duemila metri circa.
Guardando a est il Teton National Park che si estende all’orizzonte, si notano le cime più alte stagliarsi imponenti nel cielo toccando i 4200 metri di altezza.
L’ingresso al parco dà accesso ad una vasta area che si sviluppa all’interno di una lunga vallata, fino a giungere ad una radura cosparsa di caldere e geyser attivi.

Interstate 191
Piscina cristallina sulla Interstate 191

Mandrie di bisonti pascolano liberamente senza badare alle mandrie di persone che scorrazzano e schiamazzano a pochi metri da loro, anch’esse liberamente.
Tutt’intorno sbuffi di vapore e grosse nubi grigiastre si dissolvono nell’aria lasciando un acre odore sulfureo. Il blu profondo del cielo si intona con le mille sfumature delle pozze; quest’ultime paiono centinaia di occhi che brillano nella prateria che a intermittenza lascia spazio a distese di sabbia bianchissima.
Nel raggio di venticinque chilometri si è immersi in un contesto primordiale: l’era geologica a cui ci si è fermati qui sembrerebbe il paleocene.

Bisonte a Yellowstone
il sovrano di Yellowstone

La mia mente rimuove immediatamente ogni segno di civiltà per trovarsi all’istante in epoche che ora non potrei immaginare meglio. Il capolavoro della natura, emblema di questo parco, è certamente Grand Prismatic Spring: le immagini parlano da sole. Un lago di origine vulcanica; una finestra di colori che si affaccia negli abissi della Terra. I vapori si alzano in sulfuree nuvole bluastre, il cielo sembra tuffarvisi al suo interno. Una meraviglia attorniata da natura incontaminata in una luminosa cornice dalle mille sfumature: lo spettro di colori va dall’azzurro, al blu intenso, dal giallo al rosso. La saturazione è qualcosa che appaga completamente la vista. Si è in piedi davanti a un quadro talmente bello da sembrare finto.

Grand Prismatic Spring
Grand Prismatic Spring

Alle 15:57 ora locale l’omonimo geyser davanti all’Old Faithful Visitor education center, sbuffa potentemente per circa due, tre minuti. L’aria si scalda, l’umidità sale bruscamente e la terra tremante sfiata quanto represso a forza nelle cavità sottostanti, sature di materiale gassoso.
Mentre si torna verso il tanto sospirato motel, lo sguardo si perde in una natura che avvolge ogni cosa ad un paio di metri di distanza dai finestrini delle auto che sfrecciano sull’interstate 191. Tale natura alle volte oltrepassa anche il “limite” dell’asfalto permettendoti di incrociare bisonti grandi quanto un trattore passeggiare ciondolanti e noncuranti accanto alle auto dei turisti.
Qui si è estranei, oppure intrusi: la si veda come meglio si creda. Il confine è labile. Qui è ancora Natura.

DAY 3
West Yellowstone, ore 6:45. Usciamo dal motel con quattro gradi e un cielo limpido prepotentemente blu. L’abbondante colazione presso il white buffalo apre un’altra intensa giornata. Ci facciamo nuovamente strada all’interno del parco di Yellowstone per oltrepassare le mete del giorno precedente e arrivare allo Yellowstone Lake. La strada attraversa fitte foreste di conifere lasciate completamente a se stesse: una moltitudine di alberi fracassati giacciono a terra e costituiscono la base del suolo da cui gli alberi vivi traggono il loro nutrimento. È impensabile, ma esiste una lotta per la sopravvivenza anche fra questi possenti esseri apparentemente inanimati. Il territorio è costituito, oltre che da fitte distese di sempreverdi, anche da laghetti, torbiere e paludi che celano sbuffi di vapore e nebbie provenienti dalle profondità del sottosuolo.
Arrivati a West Thumb si passeggia attorno alla baia che racchiude, sotto le acque, il gigantesco cratere di un vulcano ormai spento. L’itinerario prosegue verso Lower Falls: l’imponente massa d’acqua del fiume Yellowstone precipita per più di novanta metri in un dirupo che sprofonda nell’omonimo canyon. La nebulizzazione risale per più di quaranta metri formando una massa gassosa che permea alla base della cascata e avvolge le rimanenti lingue del ghiacciaio circostante.

Lower Falls
Lower Falls

L’abisso che può raggiungere la profondità di quasi 400 metri è frutto del lavoro del fiume da milioni di anni: la terra continuamente scavata assume sui due versanti un colore vermiglio che si stempera fino alle più tenui tonalità di beige. I torrioni di arenaria circostanti, dai colori pastello, si stagliano nel cielo dal blu intenso.
L’ultima tappa del viaggio ci porta a Mammoth Hot Springs per ammirare quanto di più bizzarro può creare l’acqua sulfurea e i batteri che le permettono di sviluppare colori innaturali. Nel pomeriggio si lasciano i 2500 metri di quota per scendere nel giro di tre ore a quota 1200 metri: il viaggio prosegue in quello che sembra essere uno degli stati più interessanti visitati in Usa…il Montana

DAY 4
La notte ad Helena è la prima in cui il fuso orario permette di dormire con una regolarità che mancava da giorni.
Il posto è la classica cittadina del nord america “in the middle of nowhere”. Il Montana costituito in parte dalla catena delle Rocky Mountains, risulta per la maggior parte disabitato. Infinite colline e piccole montagne si susseguono a intermittenza: boschi, praterie e guardando verso est, salendo verso nord, appaiono i picchi delle cime più importanti. È stata un’annata abbondante per le precipitazioni nevose e tuttora è presente ancora parecchia neve. La macchina scorre veloce, le ruote scivolano sull’asfalto che taglie perfettamente le forme e le geometrie di uno stato selvaggio. Ci si dirige verso l’ingresso ovest del Glacier National Park. Il viaggio è sufficientemente lungo da concederci una sola pausa su un panoramic point dal quale si può ammirare in lontananza le montagne rocciose che appaiono di nuovo, in tutta la loro bellezza.
Entriamo al parco da West Glacier: la vallata si apre e concede l’accesso all’estremità sud ovest del gigantesco lago McDonald.

Lago MacDonald
Lago MacDonald
Tramonto MacDonald Road
Il tramonto dal 117 di MacDonald Road (Browning)

Lo scenario che si apre innanzi agli occhi del visitatore è tipicamente di questi posti. Un lago tanto tranquillo quanto esteso, acque color smeraldo che dolcemente accarezzano le rive incorniciate da gigantesche conifere. L’aria ha un odore piacevole, i colori seppur contrastanti si adattano esattamente a ciò che si vede, o meglio, a ciò che ci si aspetta di vedere.
La strada per proseguire all’interno del parco risulta chiusa una ventina di chilometri più avanti: lavori di manutenzione ci costringono a fermarci. L’unico modo per raggiungere l’altro versante del parco è quello di tornare indietro e imboccare l’Highway 2 direzione East Glacier Park. Questo ci fa però saltare la Going-to-the-sun road risultando pertanto la prima “sconfitta” del viaggio. Arriviamo a Browning dopo due ore di macchina costeggiando il Glacier al suo confine sud. Le montagne finiscono e questa piccola cittadina abitata principalmente dagli indiani pellerossa dai piedi neri fa da tramite per l’arrivo alla nostra casa. Ci fermiamo a fare la spesa in quello che risulta essere un villaggio decisamente degradato, polveroso, forse fantasma di passati differenti. I nativi girano su grossi pick-up vecchi e malconci; la gente per strada certamente non ostenta ricchezza. La sorpresa arriva un’oretta dopo… la sistemazione prenotata per le prossime due notti è ubicata al 117 di McDonald road: esattamente a 35 km da Browning, dispersa fra campagne disabitate, qualche roulotte abbandonata e fondamentalmente il nulla più totale si trova un prefabbricato di medie dimensioni recintato da filo spinato e reti robuste. La villetta è decisamente capiente e l’accoglienza è pregevole almeno quanto Elaine, la padrona di casa che ci attende sull’uscio per lasciarci le chiavi. Non esiste internet, non vi è campo per usare telefoni, la televisione serve solo a trasmettere eventuali dvd. La raccomandazione è chiudere bene le porte e il recinto: ci sono stati problemi con gli indigeni del luogo, ma sopratutto, sono stati avvistati orsi appena venti metri fuori dalla recinzione. “Non lasciate resti di cibo nel cortile, mettete la macchina nel garage interno e qui trovate questo…” A nostra disposizione ci viene lasciato uno spray anti orsi. Perfetto.
L’entusiasmo accompagna tutta la serata che viene celebrata con una grigliata di proporzioni notevoli.Si è completamente fuori dal mondo, da ogni forma di comunicazione, da ogni contatto con la realtà e con il mondo abituale. La sensazione è inizialmente strana poi, gradualmente, diventa piacevole. Il tramonto, accompagnato da un buon whiskey, vede il sole sprofondare dietro le montagne. L’indomani si va verso il Grinnel Lake.

Lower Grinnell Lake
Lower Grinnell Lake

DAY 5
Ciò che lascia attonito, attraversando queste lande, è il nulla che ti circonda. Anche qua, come in Nevada, ci si scontra con l’assordante silenzio delle pianure infinite intervallate da dolcissimi declivi. Il verde domina ogni cosa. Ci dirigiamo verso il Many Glacier Entrance per intraprendere la camminata che ci porterà all’Upper Grinnel Lake.
La strada diventa sconnessa, incrociamo un paio di macchine mediamente ogni dieci chilometri. L’ingresso al parco costa 35 dollari. Nessuno presidia l’accesso da questo lato. Scendo dalla macchina, mi reco davanti ad una bacheca di legno, infilo i soldi in una busta di carta e, sulla fiducia, emetto la fattura nonché il permesso a transitare nel parco per sette giorni. Nessuno controlla, nessuno ostacola comportamenti opportunistici: l’onestà e la correttezza di una cultura differente da quella a cui sono abituato mi lasciano leggermente pensieroso e soprattutto consapevole dell’inferiorità di alcuni aspetti culturali che vivo quotidianamente nella mia realtà.
La camminata comincia con l’avviso di elevata attenzione al pericolo di attacco da parte degli orsi. Siamo ospiti, forse spesso indesiderati, nel Bears’ country. La probabilità di fare incontri con il Grizzly o l’orso bruno non è elevata, ma consistente. Indispensabile seguire la serie di raccomandazioni che subito fanno saltare in mente immagini di bestie furenti che, per difendere i propri piccoli, si scagliano addosso con potenza inimmaginabile sventolando in aria gli artigli. La metà prestabilita è l’upper Grinnel Lake che si raggiunge costeggiando lo Swiftcurrent Lake e, subito dopo, il Josephine Lake. Saliamo di circa quattrocento metri di dislivello, ma sfortunatamente, dopo quasi due ore di cammino arriviamo a un punto in cui il sentiero si blocca causa presenza di abbondante neve che costringe allo stop. Ramponi e piccozze, non presenti nel nostro equipaggiamento, sono requisiti fondamentali per poter procedere. Amaramente bisogna fermarsi e accontentarsi di un paesaggio dalla bellezza smisurata che vede il Grinnel Lake inferiore contrapporsi a un torrione monumentale di roccia sovrastante: le montagne rocciose splendono nella loro più totale bellezza. L’aria profuma e il sole caldo, accompagnato da una fresca brezza, non fa che accentuare tutto ciò. È davvero sorprendente come il contesto risulti nel complesso armonioso dal momento che accompagnato da una perfezione olfattiva del genere. Germogli, fiori, cortecce e resine diffondono un mix di fragranze uniche. Ci si gode l’estasi, si contempla l’essenza di una splendida giornata.
Nel pomeriggio il rientro prevede un nuovo tentativo di traversata della goingtothesun-road: questa volta arriviamo da est. L’ingresso è più panoramico rispetto al suo lato occidentale. Una vallata gigantesca, attorniata da cime innevate, rocce stratificate che costituiscono torrioni e un grosso fiume che scorre al suo interno. Quest’ultimo si riversa in laghi dai colori limpidi e perfettamente intonati con ciò che sta attorno.
Anche da questo versante la carreggiata ad un certo punto si interrompe. È destino che questa strada panoramica non si possa attraversare nella sua integrità. Ma poco importa, scendiamo a piedi verso le Saint Mary falls e ci godiamo un altro meraviglioso scorcio di questo parco.
La giornata intensa si conclude con il tramonto dalla veranda. Birra rossa abbondante, un piatto di pasta per non dimenticare da dove arriviamo e gli avanzi della grigliata precedente. Il whiskey, ormai da tradizione, conclude dignitosamente il quinto giorno in terra a stelle strisce. L’indomani si va in Canada.

DAY 6

Lake Moraine - Alberta
Lake Moraine – Alberta, Canada

La giornata comincia con l’addio (magari solo un arrivederci) con la “casa nella prateria”. Il sole splende, l’aria è frizzante, il silenzio etereo è interrotto solo dal fruscio del vento e dai piccoli uccellini che cinguettano sulle rive del torrente accanto. Salutiamo le decine di cani della prateria che saltano, si rincorrono e spariscono nelle loro tane immerse in un oceano di erba.
Il confine con il Canada è deserto e disabitato, ma ormai siamo abituati a questa tipologia di “accoglienza”. Il poliziotto ci squadra impassibile e dopo qualche incomprensione ci timbra i passaporti e apre le porte di questo nuovo stato.
Le praterie scorrono veloci, le montagne ci seguono a un centinaio di chilometri alla nostra sinistra: in Italia sarebbe impensabile qualcosa di simile. L’orizzonte è sempre visibile e profondo; la dimensione in cui si è proiettati rimpicciolisce ogni cosa e rende la nostra vettura una formica che corre inesorabilmente verso la prossima meta.
La tappa di un’ora a Calgary ci permette di mangiare in un fast food e agganciarci alla connessione dati dei nostri smartphone dopo più di 48 ore. Basta immaginare come l’uomo attuale può sentirsi dopo due giorni senza comunicazioni di alcun tipo in questa era digitale. Schiavi di Internet.
Il viaggio prosegue fino al parco nazionale di Banff. Il parco si sviluppa in un vallone che ha come contorno cime e monti dall’infinita bellezza: torrenti puliti precipitano con coreografiche evoluzioni in cascate possenti. Distese di sempreverdi si appigliano ai versanti dei monti scalando e rinunciando per poche centinaia di metri alle vette. Il tutto ha un sapore selvaggio, indomabile. La natura sembra noncurante di quei tanti curiosi esseri che affollano i fondovalle, scorrazzano a destra e a sinistra, esattamente come noi.
Arrivati a Lake Louise puntiamo verso Lake Moraine. La strada sembra chiusa per sovraffollamento, ma fortunatamente ci viene aperto il passaggio. La motivazione è comprensibile: arrivati al parcheggio dopo una ventina di chilometri, lo spazio per i veicoli è ristretto. Definire lo scenario davanti a noi suggestivo è certamente riduttivo. Una conca coronata da bastioni di roccia circostanti dall’impatto scenico sorprendente. Lingue di neve ghiacciata scivolano verso le acque colore smeraldo del lago, sciogliendosi in una moltitudine di rigagnoli e torrenti. L’aria è fresca, il sole sbuca ogni tanto dietro le foschie che sporcano i cieli. Di certo fra le migliori fotografie di questo viaggio.
La sera giungiamo in un lodge a metà strada tra Field e Golden. Una casa spaziosa completamente in legno ci accoglie come meglio ci si potrebbe aspettare. Domani si prosegue verso nord.

Peyto Lake
Peyto Lake

DAY 7
Il risveglio nel lodge in mezzo ai boschi avviene intorno alle quattro e mezza del mattino. Le prime luci dell’alba appaiono da dietro il profilo delle montagne orientali. Mi riaddormento fino alle sette, cullando i miei pensieri con quella piacevole sensazione che si prova quando si è lontani, immersi in una realtà che si discosta totalmente da ciò che si vive quotidianamente.
Raccolto il materiale, caricata la macchina si riparte in direzione Lake Louise. La strada scorre rapida e veloce fintanto che non ci si imbatte in una coda di quasi due ore a causa di una massiccia frana sulla highway 1.
Il programma è inevitabilmente rivisto: salta la tappa a Lake Louise per dirigerci verso nord, direzione Peyto Lake. Probabilmente la meta con lo scorcio tra i più suggestivi di questo viaggio. Un lago che parte dai sedimenti del ghiacciaio antistante per spingersi verso nord-est, costeggiando il massiccio alla destra di Mistaya Mountain. Il colore è, come sempre da queste parti, il punto forte dello scorcio panoramico. Il verde e il blu si amalgamano fra loro, mischiando le tonalità della flora, delle rocce e delle acque che caratterizzano il paesaggio.
La tappa è rapida: alle 16:45 ci aspetta l’escursione guidata al Columbia Icefield per l’uscita sul ghiacciaio Athabaska.
Saliti a bordo di un bestione corazzato simile a un carro armato (dal valore di un 1,3 ml di dollari) si sale di trecento metri sulla parte transitabile della lingua terminale del più grande Columbia Glacier: ciò che abbiamo sotto i nostri piedi, infatti, altro non è che il 2% della sua ampiezza complessiva.

Athabaska Glacier
Tour dell’Athabaska Glacier

Alla nostra sinistra, guardando la parte superiore dell’Athabaska Glacier, vi è l’omonimo monte (3493m) e accanto si erge ancora più imponente Andromeda. Sul versante opposto vi è lo Snowdome (3459m) che alle spalle, nel vallone laterale sovrasta il ghiacciaio ancora più d’impatto scenico. Dal vallone in cui siamo, guardando verso il fondo, si scorgono lateralmente piccole foreste di conifere basse e non di bellissimo aspetto: hanno la bellezza di 400 anni e saranno alte al massimo tre, quattro metri. Si tratta di alberi che vivono in condizioni estreme a causa della carenza di nutrienti nel terreno e soprattutto a causa del vento freddo che scivola continuamente dall’alto. È sorprendente imbattersi in forme di vita che resistono alle condizioni estreme, in contesti impervi. La forza della natura.
Tempo di assaggiare l’acqua del ghiacciaio che sgorga dal ghiaccio vivo e puro, tempo di scattare le solite foto di rito per poi tornare giù.
La sistemazione è sicuramente la più costosa dell’intero viaggio, ma è tutto sommato comprensibile visto il contesto. La cena è qualitativa almeno quanto la comodità della camera con finestra dalla vista a dir poco “suggestiva”.
L’indomani ci si spinge verso il punto più settentrionale del viaggio.

Sunwapta Falls
Sunwapta Falls

DAY 8
La sveglia davanti a un enorme ghiacciaio è coreografia perfetta per un viaggio a nord.
Si fa colazione e comincia la lunga giornata che si rivelerà, al contrario di ogni aspettativa meteorologica, decisamente interessante. La prima tappa, salendo sulla strada che porta a Jasper, si ferma alle Sunwapta Falls. Il fiume Athabasca ha scavato profondamente il suo percorso nel corso del tempo, a tal punto da disegnare in determinati tratti del suo tragitto canyon stretti e profondi. Stesso risultato si può ammirare la tappa successiva con la visita alle Athabasca falls: i dislivelli del letto del fiume lasciano le acque impattare violentemente sulle rocce circostanti. Ciò fa si che queste ultime prendano forme particolari e tondeggianti grazie all’effetto “levigato” che ne consegue.
L’aria è a tratti fredda. Ogni tanto qualche veloce e leggero scroscio d’acqua rende ulteriormente umida l’aria, facendo risaltare il profumo rilasciato dalla resina delle conifere circostanti.
Intorno all’ora di pranzo siamo a Jasper: giusto il tempo di acquistare i biglietti rimasti per il giro su battello a Maligne Lake e un pranzo “da asporto” low cost ad un super market lì accanto.
Ecco che ci mettiamo nuovamente in marcia verso est, seguendo il corso del Maligne River. Improvvisamente un gruppo di macchine accostate fa presagire che qualcosa di interessante abbia catturato l’attenzione di un gruppo di visitatori. Ecco infatti apparire nella lieve radura laterale alla strada, finalmente, un orso bruno. Sostiamo circa cinque minuti. La decina di macchine si ferma alla bene e meglio non rispettando più alcuna logica convenzione stradale. L’obiettivo è quello di immortalare il simbolo di questi parchi. L’icona delle montagne rocciose. L’orso non esita a uscire alla scoperto pascolando piacente, mangiando i fiori di tarassaco che coprono abbondantemente lo spiazzo verde in mezzo agli alberi.
Probabilmente quello che può essere l’emblema della potenza naturale da queste parti, giace davanti a noi
Dopo essersi accucciato per terra un attimo, decide di alzarsi e rientrare nel bosco, lontano da sguardi fastidiosi e scatoloni di lamiera rumorosi.

L'orso nero canadese
L’orso nero canadese
Maligne Lake - Spirit Island
Maligne Lake – Spirit Island

Lo spettacolo della natura non finisce qui: tempo venti minuti di viaggio si avvista un grosso nido appoggiato perfettamente sulla cima dello scheletro di un albero. Eccovi un’aquila volteggiare e posarsi appena sopra il mucchio di legnetti e ramoscelli perfettamente incastrati l’uno con l’altro. Con un paio di scatti si riesce a immortalare la testa bianca e il becco giallo acceso cibare i suoi piccoli.
Il giro su battello a Maligne Lake ci porta fino a Spirit Island. Lo scenario circostante ci presenta due grosse catene montuose che racchiudono lo specchio d’acqua, attorniandolo di fittissime foreste di abeti. Tutto ciò che immagini percorrendo le strade di questi posti, guardando oltre al finestrino, si concretizza: spesso ci si chiede come possa essere ulteriormente selvaggio e sperduto uscire dalla certezza di una pista asfaltata che solca territori inospitali e disabitati per vastissime superfici. Ecco, nel preciso momento in cui l’imbarcazione si stacca dal molo e si spinge nella profondità di questi scenari, si comprende quanto sia estremamente difficile sopravvivere in zone così impervie, severe, ma al contempo maestose. Timore reverenziale è il termine giusto per definire il sentimento che si prova al cospetto di qualcosa così sublime.
Spirit Island è l’essenza di tutto ciò. Un piccolo sputo di terra che protende verso uno scorcio idilliaco. Gli elementi naturali più severi incorniciano un fotogramma che trasmette una profonda pace. La consapevolezza di essere, in fondo, come quegli alberi che sopravvivono su un piccolo isolotto in mezzo alla natura più intensa, ma al contempo distaccata da acque sicure. Noi che viviamo nell’agio dei nostri centri abitati, troppo spesso inconsapevoli che lontano dal nostro caos, dalla nostra routine, dai nostri rifiuti esiste qualcosa che a molti risulta insignificante, ma allo stesso tempo più importante di ricchezze effimere e tangibili. Esiste la natura che prende il sopravvento, che non curante di piccoli esseri spesso egoisti e ciechi, esplode in una bellezza difficile da comprendere. Rientriamo al molo dopo circa un paio d’ore. La cena veloce a Jasper preannuncia il lungo viaggio verso Vancouver.
La tappa notturna spezzerà il tragitto dopo le prime quattro ore di viaggio: il luogo trovato per dormire è un motel in un paesino (praticamente composto solo da motel) di nome Clearwater.
La giornata è stata intensa e il sonno, all’una di notte, prende subito il sopravvento.

DAY 9-15 (Epilogo)

La seconda settimana cambia completamente tipologia di viaggio.  La Rocky Mountain Way che ci porta in Canada finisce con la tappa a Jasper, ma il ritorno a San Francisco prospettato per il weekend successivo, ci permetterà di scendere verso la California più lentamente, godendoci la città più popolosa della Columbia Britannica e quindi la celebre città californiana.

La traversata della Columbia Britannica da est a ovest è lunga a tal punto da farci cambiare il fuso orario di un’ora. Così ci ritroviamo ad attraversare nuovamente monti, foreste e altipiani imbattendoci in paesaggi assolati, grossi nuvoloni, rapide nevicate e nuovamente scrosci d’acqua.
L’arrivo a Vancouver è la fine della nostra vacanza nei parchi, ma l’inizio di quella “cittadina”.
Arriviamo in questa grande metropoli nel primo pomeriggio: passiamo dall’east-end attraversando strade formicolanti di gente, ragazzini che scorrazzano sugli skate e sulle bici, gente comune, turisti (tanti essendo domenica) e una moltitudine di senza-tetto. Rimaniamo alquanto allibiti da ciò: forse, erroneamente, non ci si aspettava così tanta povertà ai margini di una città canadese così famosa. Eppure pare essere la città con il clima più ospitale della nazione intera (motivo per cui i meno fortunati tendono a stanziarsi da queste parti, nel Downtown Eastside).
Oltrepassata Gastown, cuore pulsante della vecchia Vancouver, si è subito circondati dai templi del consumismo, della moda d’elitè e dalle catene dei marchi più famosi. Finalmente, puntando verso Stanley Park si arriva all’albergo nel cuore della zona asiatica della città.

Vancouver Lookout Skyline
Scorcio di Vancouver dal grattacielo del Lookout

La giornata è stata pesante: si ha giusto il tempo di girovagare per la città che ci abbraccia con un aria fredda e pungente (10/15 gradi) nonostante il sole sia bello alto nel cielo. Arrivati a Gas Town mangiamo in un pub locale fish and chips  e il “poutine”: piatto tipico canadese a base di patatine fritte (tanto per cambiare), salsa gravy, una sorta di spezzatino e una colata di formaggio fuso sopra. Insomma, nulla di sofisticato per essere un piatto “nazionale”, ma tutto sommato accettabile. 
I giorni successivi giriamo Vancouver in bici e a piedi facendo probabilmente la scelta migliore per godersi i luoghi salienti della metropoli. Tappe di rilievo sono Stanley Park, il mercato di Granville Island e il Vancouver Lookout. Interessante anche il parco di Capilano con l’iconico ponte sospeso, ma sinceramente nulla di eccezionale. Di parchi e foreste ne abbiamo visti parecchi i giorni precedenti e questo probabilmente risulta minuscolo e non così entusiasmante. Il classico luogo turistico che i nord-americani sanno valorizzare decisamente bene.

Dopo due giorni ci rimettiamo in viaggio per l’ultima parte di una lunghissima traversata che dal Canada ci porta quindi in California. Diciannove ore di macchina intervallate da pause, accompagnate da musica e da un tour de force alla guida che ci vede susseguirci l’un l’altro per percorrere più strada possibile, nel minor tempo possibile.

San Francisco è la metropoli che forse più amo al mondo. La visitai nel 2012. Da sempre, probabilmente, l’ho idealizzata come la mia città prediletta; la paura era appunto quella che, alla luce di ciò, potessi rivedere questo posto con occhi differenti, distruggendo tutta l’aura magica che ho costruito nel corso degli anni attorno al ricordo del mio primo viaggio in Usa. La sorpresa più grande è stata quella di smentire le mie paure. Ovvero di rivedere questa città con gli occhi di chi è rimasto innamorato di un ricordo ed ha potuto ritrovare esattamente quello che aveva lasciato sei anni prima .

Golden Gate Bridge
Golden Gate Bridge visto da Marina

“We all go back to where we belong” cantavano i R.E.M. alla radio quando atterrai a Frisco la prima volta. Questa canzone mi ha accompagnato nel ritorno verso il posto che tanto ho amato.
Nei giorni trascorsi qui abbiamo girato la città in lungo e largo, camminando per una quarantina di chilometri complessivi. Union Square, Little Italy, China Town e i pier, tra cui il famoso 39, durante il primo giorno. Nel secondo abbiamo intrapreso una lunga camminata che dal Pier 39 ci ha portato prima davanti al Golden Gate Bridge all’altezza di Presidio; abbiamo quindi virato verso sud in direzione Golden Gate Park per arrivare ad Haight Ashbury con tappa obbligatoria sulla Haight St, via principale di questo quartiere dalle folcloristiche sfumature hippie. Siamo tornati quindi verso il motel passando a piedi per Lombard Street con i suoi tornanti particolari. Osservare la città a piedi è quanto di meglio per viverla, assaporarla e gustarne ogni minimo dettaglio: dai sali-scendi che l’hanno resa famosa al mondo, alla gente che sfreccia avanti e indietro in un quadro dall’umanità più sfaccettata che mai. Dal lusso dei quartieri alti alla miriade di homeless che affollano la città con i loro averi stipati in carrelli della spesa o grossi borsoni sgualciti. Dai corpi atletici di coloro che corrono sul lungo-mare con vista Alcatraz, ai relitti della società che naufragano sui marciapiedi in mezzo a grattacieli delle quali ombre accentuano ulteriormente il freddo che si patisce in questa città dannatamente arieggiata.
L’ultimo giorno la tappa a Cupertino è stata caratterizzata dalla visita della Silicon Valley e di quelli che sono i monumenti dell’attuale era informatica/tecnologica. Apple, Google, Ibm, Facebook e così via: tutti colossi che esercitano un’influenza schiacciante sulla nostra attuale società, stipati in un’area che sarà si e no grande qualche decina di chilometri quadrati. Di notevole interesse la compagnia del nostro cicerone della giornata, un italiano che vive ormai da sei anni in California e che ha trovato fortuna proprio nei pressi di San Jose. La vita qui è anni luce distante dagli standard dei comuni mortali che vivono le loro vite nella quotidianità, ignari di quanto accade fra le menti illustri di questa zona. Lontani dalla mole di soldi che piove sulle poche persone che riescono a fare fortuna da queste parti, lontani dalla vita stereotipata, schiava del lavoro e della rat-race che (a mio avviso) affigge questi (s)fortunati inventori, scienziati e più in genere personaggi che rischiano di rimanere invischiati nella melassa delle loro stesse trovate. L’impresa per i “vincenti”, nella Silicon Valley, è rimanere coi piedi a terra senza farsi risucchiare completamente da una vita devota interamente allo stesso lavoro e alla mole di soldi che produce.

Il ritorno da questo lungo e intenso viaggio lascia la pancia ancora affamata. La necessità di continuare a uscire dalla routine della vita quotidiana si fa maggiormente impellente ad ogni rientro, come sempre, da viaggi simili.
A settembre si cambierà meta.

67 Comments on “Rocky Mountain Way: Road To Canada”

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