Trekking Rocca La Meja

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Il 5 ottobre, durante quello che si è rivelato uno degli autunni più caldi di sempre, decisi che il traguardo dei 28 doveva esser celebrato in un modo completamente differente dal solito.
La Valle Maira ci attendeva incastonata in un contesto inedito: l’autunno esplodeva in tutta la sua meraviglia di colori e sfumature, rimbalzando da un versante all’altro. Tonalità calde e luminose si diffondevano su per la stretta vallata, conducendo la macchina tra curve, gallerie e rocce che lasciavano spazio ad una sottile lingua d’asfalto.
Rocca La Meja, una delle cime più importanti del comprensorio, risplendeva nella luce del tramonto in lontananza. Boschi colorati facevano da contorno al torrente Maira mentre salivamo verso Dronero. I paesaggi erano come bloccati in uno scatto, immobile, di una bellezza inimmaginabile.
In quel periodo dell’anno in cui l’estate muore in maniera gloriosa per lasciar spazio al lungo inverno, innalzarsi verso il blu del cielo terso sembrava l’unico modo per dominare dall’alto delle vette frastagliate, la pianura esalante gli ultimi aneliti di un calore protrattosi per tanto tanto tempo. Il mattino di una notte fredda (la temperatura sfiorava lo zero pur essendo a inizio ottobre) lasciavamo un borgo di pietre e vecchie baite per spingerci oltre i 1300 metri, costeggiando malghe, foreste di conifere e laghetti di montagna per giungere al punto di partenza del nostro trekking.
Inutile dire che il vento dei giorni precedenti aveva pulito l’aria, spazzando ogni imperfezione, affilando le forme e le sagome, dando ai paesaggi montani una consistenza a noi inedita. Il sentiero si inerpicava su per i pendii fino a giungere ad un altopiano che ci presentò Rocca La Meja come un bastione, una fortezza che si ergeva in mezzo a una pianura ingiallita e assediata da picchi e vette aride, in attesa delle prime nevi che sarebbero cadute di lì a poco. L’assalto alla parete rocciosa si faceva gradualmente insidioso: lo spettacolo circostante era direttamente proporzionale alla fatica e all’attenzione che prestavamo nell’incastrare i piedi uno perfettamente dopo l’altro. Le folate di vento si fanno maggiormente forti elevandosi verso il cielo; quello che a bassa quota è appena un soffio di vento si trasforma in potenti folate d’aria densa che ti urta non curante e sprezzante di qualsiasi forza fisica. Le correnti in montagna si beffano della gravità piroettando e danzando fra le creste e le rocce.
La cima si nascondeva dietro un ammasso di macigni che pur essendo in perenne bilico, permangono nel corso degli anni nella stessa posizione: tutto è in equilibrio. La precarietà apparente altro non è che un illusione agli occhi degli escursionisti. Le pietre si avvinghiano fra loro senza alcuna intenzione di precipitare. Una sopra l’altra, accatastate, imponenti a guardare il sole, si protraggono verso la cima. La salita era giunta al termine.
Trattenere il respiro e lanciare lo sguardo verso gli orizzonti. La perfezione. Le cime ruotano attorno: potresti essere la pupilla nera in un iride di colori e sfumature autunnali. In poco più di due ore siamo nuovamente alla base, il sole inclina e si flette sul versante di ponente. La macchina è un puntino che si definisce poco alla volta: la sagoma, il colore e quindi i dettagli.
Le tre ore successive scendevamo verso la città. La normalità avvolgeva ogni cosa, ma guardando ancora a ovest, appena accanto al Re di Pietra, la valle Maira brillava in lontananza, appena sotto Venere che faceva capolino nel blu della notte imminente.

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